Ciao WordPress, come sei cambiato!
Ma quanto tempo è passato! E quante volte ho avuto dei vuoti, per poi tornare e dire “Stavolta mi impegno per bene, voglio essere costante e proseguire questa attività di sfogo, di scrittura, di compagnia a me stessa e, se fa piacere, anche a qualcun altro”…
Tante.
Questa volta il blocco è stato bello tosto, e non soltanto in termini di tempo. Sono accadute molte cose in questi tre anni. Cose pesanti. Di alcune, probabilmente, avevo fatto trapelare qualche accenno quando scrivevo dei miei stati d’animo pessimi e irrecuperabili. Ma non potevo esprimere apertamente a cosa stavo andando incontro. Avevo semplicemente paura di affrontare quello che credo sia il giorno peggiore nella vita di una persona. O, per lo meno, per la maggior parte delle persone.
Avevo paura di cosa sarebbe successo, come mi sarei sentita, di se e come me ne sarei tirata fuori e di cosa ne sarebbe stato di me.
Eppure sono qui, viva, la mia vita continua, ora un po’ alla giornata (visto il periodo storico epocale in cui ci troviamo, e credetemi se vi dico che è EPOCALE!) e ho “superato” l’evento che attendevo con tanta ansia e pianti notturni.
Certo, le cose non sono più come prima di esso, visto che adesso c’è una mancanza che nessuno potrà mai colmare.
E anche io sono un po’ cambiata. Forse sono la stessa di prima, ma ho buttato delle cose e ne ho “comprate” altre. Ho fatto un po’ di “pulizia”, ma non ho ancora finito.
Avete presente quando decidete di fare spazio in casa perchè avete accumulato troppe cose che non vi servono o non vi piacciono più? E nel contempo è anche ora di ritinteggiare i muri perchè i colori di prima non vi piacciono più o si sono stinti? Ecco, io sono in questa situazione.
Forse, non sono più la stessa di prima… O forse lo sono, sono la stessa di prima ma in modo diverso.
E’ complicato…

Non posso dire che ho completamente rivoluzionato la mia vita, perchè in realtà io sono sempre stata di mentalità aperta, accogliendo nuove possibilità e orizzonti.
Il fatto è che stavo vivendo chiusa nel mio mondo, nel mio microcosmo, che richiedeva ogni genere di attenzione.
O forse gli davo io troppa importanza…?
Vivevo nel mio mondo, fatto di situazioni difficili, incomprensibili a volte. E me n’ero creata un altro in cui rifugiarmi. Ma non mi sono mai davvero occupata di quello che stava accadendo fuori, là nel macrocosmo, nel mondo in cui tutti viviamo.
Ero così assorbita dal mio che neanche mi preoccupavo più di tanto per quanto accadeva fuori da me, perchè pensavo di avere già troppo da tenere a bada e che non sarei stata in grado di affrontare anche altro.
La mia piccola sfera di vetro – che poi è crepata, frantumandosi in mille pezzettini – era già esaurientemente piena di “cose”. Forse, in un certo senso, era una scusa, un pretesto, per non aprire gli occhi su altro.
Credo…
Come avevo scritto l’ultima volta, me ne sono andata di casa. Letteralmente, l’azione rientra più nel fuggire a gambe levate per la paura di dover affrontare l’inevitabile, perchè non sapevo come avrei potuto affrontarlo e sopravvivere ad esso.
Così, presa dal terrore, ma non solo, perchè comunque dovevo dare una svolta alla mia vita, fare qualcosa di “buono” dal punto di vista lavorativo, sono finita nella destinazione preferita dagli Italiani: il Regno Unito.
Per alcuni mesi ho vissuto a Portsmouth, ventosa cittadina della costa meridionale dell’Inghilterra, di fronte all’isola di Wight.
Un vento che non vi dico. Grigio e vento. Ma clima decisamente molto meno umido degli inverni veneziani.
Mi ricordo che sono partita il 3 dicembre 2017, vestita come se stessi andando in Siberia. Non ero mai stata in Regno Unito durante l’inverno, ed essendo più a nord pensavo che avrei trovato freddo gelido.
Invece, sono arrivata che non vedevo l’ora di cambiarmi e ho dovuto andare a comprare delle magliette a manica corta da mettere sotto il maglione.
Non mi era mai successo, in inverno in Italia, di vestire con maglietta a manica corta sotto il maglione. Mai. Neanche adesso.
In Inghilterra ho dovuto ricredermi. Forse perchè era una cittadina di mare, forse perchè non c’era la stessa umidità a cui (non) sono abituata nel Nord-Est italiano, ma l’inverno l’ho trovato molto più gestibile e sopportabile. Non mi sembrava vero: ero a una latitudine superiore ma soffrivo molto meno rispetto a dove avevo vissuto una vita.
Spostandosi a Londra, invece, posso garantirvi che nel mese di gennaio il freddo si fa sentire molto di più.
Sono rimasta qualche mese in quella città. Ho frequentato una scuola per rinfrescare la lingua e aumentare il livello, ho conosciuto persone nuove da tutto il mondo, e ho conseguito i documenti per poter lavorare in regola in UK.
All’interno della scuola e nel residence in cui ho vissuto per i primi tempi, come dicevo, ho conosciuto persone di diversa nazionalità. Ovviamente, riguardo ad altre culture ognuno ha la sua esperienza e il suo pensiero, io posso raccontarvi la mia.
Per quello che ho potuto testare con mano, gli asiatici sono persone educatissime e rispettose. Koreani, giapponesi e thailandesi sono così tranquilli che quasi non ti accorgi della loro presenza.
Gli occidentali… beh, gli occidentali sono piuttosto rumorosi. E gli italiani sono i più casinari, e spesso non capiscono quando è ora di rientrare nella loro sfera permettendo anche agli altri di esprimersi.
La prima sera ebbi subito modo di vedere come stavano le cose.
Il residence era diviso in due, e affidato a due house-manager, due ragazze che allo stesso tempo studiavano nella scuola, una della mia età circa e l’altra un po’ più piccola, la prima di Madrid e la seconda di Roma, con cui sono amica tutt’ora e che è entrata regolarmente a far parte delle mie giornate. Due care ragazze che sono stata contenta di scoprire e far entrare nella mia vita.
Quella sera ero andata da Subway a prendermi un panino per cena, ma quando mi recai in cucina vidi sedute al tavolo un po’ di persone residenti in entrambi i residence che stavano cenando assieme. O, meglio, il ragazzo italiano che al momento era l’unico connazionale, a parte la house-manager, spesso prendeva il dominio della cucina e invitava gli altri a mangiare con lui.
No, non fatevi ingannare. Lì per lì anch’io rimasi un po’ sorpresa dall’apparente generosità del ragazzo, ma nel corso della serata capii che non era tutt’oro quel che sembrava luccicare.
Insistette per farmi unire a loro, mi offrì il pollo con le patate che aveva preparato. Poco male, avrei tenuto il panino per la pausa pranzo del mio primo giorno di corso. Mi sentii lusingata in un primo momento, ma quello a cui assistetti non mi piacque per nulla.
Lui e un altro ragazzo, un italiano del Ticino (o uno svizzero italiano?) prendevano in giro un ragazzino giapponese di 21 anni per via del nome (il suo nome era Katsutoshi, detto Katsu; ora considerando la pronuncia potete capire come lo chiamavano e sfottevano di continuo).
Ho imparato che italiani dell’Italia e italiani del Ticino sono veramente degli stronzi. Ma lo sapete che in Ticino gli italiani dicono che gli italiani dell’Italia hanno una pronuncia inglese molto marcata? Eh, perchè loro parlano francese, per questo sono italiani del Ticino…
Tornando al ragazzo giapponese, vedevo che si sentiva imbarazzato ad essere al centro dell’attenzione e capiva benissimo che lo stavano prendendo in giro. Ma i giapponesi sono persone riservate e per bene, tanto che addirittura non hanno, nella loro lingua, delle vere e proprie parole offensive. La mia insegnante di giapponese diceva che per dire no dicono “chotto”, che è una specie di “ci penso”, “non saprei”, per non essere scortesi.
Davanti a quella scena io non potevo intervenire, visto che ero l’ultima arrivata, ma quello a cui assistevo non mi piaceva per niente. E avevo ormai capito che aria tirava e soprattutto chi la tirava.
Mi dispiaceva vedere quel ragazzino così educato venire preso in giro in quel modo, non solo perchè non lo trovavo giusto da parte di uno più grande, ma anche per l’ammirazione che provo per quel popolo. A differenza di quello che provo per l’italiano medio, che si deve sempre far riconoscere come caciarone, stupido e che sta sempre in cucina: le tipiche caratteristiche dello stereotipo italiano, l’avevo davanti ai miei occhi. Bello, uno pensa di andare via e respirare aria fresca e si trova le stesse scene a cui assiste nel suo paese: non era proprio quello a cui ambivo.
L’idea su quel tipo me l’ero fatta, ormai, e non venne smentita. Lo si sentiva per tutto il piano mentre parlava ad alta voce al telefono nella sua stanza. Ma quello che mi colpì fu che una sera fece dire a tutti che la cucina era completamente inaccessibile: doveva cucinare lui perchè aveva invitato parte dello staff della scuola a cena.
Mi colpì che l’house-manager non si rese conto che non era propriamente corretto nei confronti di tutti gli altri studenti che, pagando una retta, avevano ogni diritto di utilizzare la cucina in piena libertà, ma pensai che era dovuto alla sua giovane età e quindi alla mancata esperienza in situazioni in cui è necessario un po’ di polso per mantenere il controllo e garantire piena uguaglianza.
Compresi che quel ragazzo prendeva la gente per la gola: ti invitava a cena, sembrava gentile e accogliente, ma lo scopo era avere il controllo su tutto, così da poter agire da padroncino degli ambienti comuni come meglio gli conveniva.
Io ero tra i fortunati studenti invitati a cena. Non avrei MAI accettato di dover uscire per comprare del cibo pronto (in Inghilterra!) con tutte le mie intolleranze alimentari, soprattutto considerando che nelle vicinanze non c’era granchè, e non avevo ancora dimestichezza con soluzioni tipo “Just eat”, che ho scoperto solo in seguito.
Beh, quella sera la cena comprendeva primo, secondo e contorno, nulla da dire. E ho constatato che veramente gli altri studenti non si sono presentati in cucina, dopo essere stati avvisati che sarebbe stata presa in ostaggio dallo “chef italiano” di turno. Per lui è stato un bene mettermi tra gli invitati, perchè io non me ne sarei stata buona nella mia stanza. Mettiamocelo tutto sto stereotipo: si può mai dire a un italiano all’estero di stare lontano dalla cucina? Suvvia! Però mi è dispiaciuto molto per chi non c’era.
Gli “intrusi” alla cena eravamo io, mia sorella (che era partita con me), la house-manager e il ragazzo giapponese. E siccome eravamo tre italiane, i commentini sono partiti. Siate comprensivi…
Da quella sera, se non sbaglio, io e mia sorella siamo diventate le confidenti della house-manager che ha iniziato a svelarci tutti i retro-scena della scuola, di cui uno studente non potrebbe mai venire a conoscenza da fuori. E’ etico? Sicuramente no, ed è per quello che non svelerò nulla su quella che all’epoca era tra le 10 migliori scuole d’inglese del Regno Unito. Sappiate solo che gli insegnati che ho trovato io erano validissimi!
Ecco, andiamo a parlare delle lezioni.
Le classi erano formate da non più di 10 persone e le lezioni erano interattive. Non era tipo “il professore spiega e tu ascolti”, era proprio un dialogo continuo. E i professori gentili, preparati.
Con uno di loro, ogni martedì pomeriggio, dopo la lezione, si andava al Garage Lounge (vi lascio il link per andare a vedere). Divanetti rossi di velluto, una fetta di torta, un tè e i quiz del professore. Inutile dire che quel posto poi è diventato anche il posto di ritrovo con il gruppettino di persone con cui uscivo.
Le lezioni duravano tutta la giornata, dalle 9 alle 16, con la pausa pranzo. Poi c’era giusto il tempo di andare a fare la spesa al supermercato grande in pieno centro (più fornito per intolleranti al lattosio, anche se i miei enzimi di cui vi parlai tempo fa erano sempre con me) visto che i negozi a una certa ora chiudevano.
Il week end era dedicato alle uscite in centro con qualcuno che avevo conosciuto alle lezioni. Alla fine, eravamo tre italiane, due giapponesi, un tailandese e una svizzera. Che bello respirare altre culture e parlare semplicemente di “cose” con altre persone. Ma abbiamo affrontato anche temi molto seri.
Non posso dire che non sapevo che negozi avrei trovato e come avrei dovuto adattarmi, perchè ero già stata a Londra tre anni prima. Ma Londra è Londra, piena di italiani che hanno aperto i loro business (anche se io, a Londra, non ne ho visto nessuno… o non ci ho fatto caso o non sapevo dove trovarli… a me piace sperimentare le novità del posto, sennò che senso ha?).
Ad ogni modo, nei nostri giretti abbiamo scoperto dei veri e propri rifugi per il il palato. E, enzimi alla mano, io che sono golosa ho dovuto provarli.
Prima di tutto, vi garantisco che il pane fuori Italia può essere buono come e anche di più di quello nazionale (o almeno per chi, come me, non ha panetterie eccelse vicino casa, ma solo discrete). Così ho trovato il panificio Bread Addiction (lasciate che scompaia in automatico l’avviso davanti quando cliccate sul sito). Un pane, ragazzi, ma un pane che mi ha ricordato quello dei tempi d’oro quando scendevo al Sud dai parenti. Per non parlare delle brioche enormi che aveva sul bancone. E, guarda caso, il negozio si trovava proprio lungo la via per raggiungere il locale preferito del professore, di cui dicevo poco sopra. E niente, ovviamente siamo diventati addicted a quei prodotti meravigliosi!
A parte poi i famosi Pret a Manger e Eat, dove si può sicuramente trovare un pasto sano (le zuppe calde!), nella zona di Gunwharf Quays, che è una specie di centro outlet dove tutti i negozi presenti sono degli outlet delle catene di cui fanno parte, ho scoperto un altro posto dove poter godere di delizie dolci e salate: la Cornish Bakery (qui il sito generale), una catena proveniente dalla Cornovaglia che produce deliziosi “cornoni” (cornetti no, visto sono enormi) salati e brioche dolci. Buoni, ma buoni…!
Per non parlare dei dolci di Patisserie Valerie! Uno spettacolo! (E qui un assaggio)
Signori, se si sa cercare, si mangia bene ovunque.
Ma volete qualche foto? Eccole!




E le foto delle cibarie, quelle che mi sono ricordata di fare.



Per il momento il racconto finisce qui, anche se ho già pronto il seguito.
No, non è una scusa, ce l’ho davvero. ma mi sembra di aver scritto abbastanza per una prima volta dopo ben tre anni.
Auguro a tutti voi una buona serata. Vorrei davvero risentirvi presto.